Così com’è strutturata la TUN, la variabile “danno morale” non può che corrispondere alla “componente qualitativa della Invalidità permanente”, ovvero alla sofferenza menomazione correlata, in quanto il parametro- se esiste una logica applicativa – diventa, per “necessità probatoria”, una variabile della IP.
Viceversa, non si comprende su quali “basi” possa essere formulata una motivata richiesta di incremento (minimo- medio, massimo) della quota corrispondente ad una accertata Invalidità Permanente, considerando che il solo incremento di “disfunzionalità anatomo-psichica” non giustifica, tecnicamente, un automatico incremento della componente di “sofferenza” connessa alle ricadute “esistenziali” relative a quel determinato danno biologico.
Di qui la necessità di un Bareme tecnico medico legale che integri il parametro “quantitativo” con un parametro “qualitativo” che possa definire contestualmente l’effettivo riferimento delle componenti “soggettive” previste dalla “fasce di danno morale” compatibili col grado di sofferenza del danneggiato che è costretto a convivere con una determinata condizione menomativa rispetto al grado di IP accertata.
Distinto parametro qualitativo (da riferire alla sofferenza patita “per la lesione e suo decorso) serve, inoltre, per un adeguato inquadramento dei valori di riferimento risarcitorio della “inabilità temporanea biologica totale”.
Se –come espresso dalla Corte di Cassazione (e recentemente ribadito dal Consiglio di Stato) – il danno morale “intimo“ afferisce alla lesione di altri “valori” ed è estraneo al danno biologico (e quindi non di competenza medico legale ), il rapporto precostituito nella TUN tra IP e danno morale non avrebbe alcuna logica liquidativa in quanto il “principio giuridico “ (per il quale sarebbero previsti differenti elementi probatori) non trova alcuna corrispondenza risarcitoria rispetto a quella prevista per la IP. Sarebbe un po’ come voler stimare – a peso- il costo delle “banane” prendendo a riferimento il valore economico dei “pomodori”.
Inoltre, essendo “entità risarcitorie ontologicamente” estranee tra loro, ne deriverebbe che il cd “danno morale” o “intimo” – ove provato- dovrebbe essere una posta estranea alla stessa TUN.
Tale ipotesi appare evidente ove il concetto di “danno morale” debba afferire all’“evento” patito dal danneggiato. Qualora, al contrario, il presupposto giuridico debba riferirsi alle “conseguenze del fatto illecito”, si dovrebbe tener conto che molti degli aspetti individuati dalla Cassazione per la specifica definizione di danno potrebbero trovare corrispondenza con semplici manifestazioni cliniche della lesione ovvero della stessa condizione menomativa accertata risultando di difficile distinzione il tipo di “sofferenza” che grava sullo stesso danneggiato.
In ogni caso appare alquanto incomprensibile il voler rapportare – sotto il profilo risarcitorio – il concetto di “paura”, “patema d’animo”, “disistima” a proporzionali valori risarcitori di IP che sono specifiche espressioni di disfunzionalità biologica, come tali definibili solo dal medico legale.
Mi chiedo: Su quale rapporto si possa impostare una “proporzionalità risarcitoria” dal momento che non sussiste alcun nesso tra variabili di diversa “costituzione ed entità”
In vero, i diversi aspetti di sofferenza (menomazione correlata e danno morale intimo) possono anche coesistere nello stesso danneggiato : per fare un esempio un soggetto contagiato da HIV a seguito di erronea trasfusione di sangue infetto soffrirà sia per la condizione menomativa ( che può determinare gravi limitazione nella quotidianità e soprattutto limitazioni nella stessa vita di relazione ) sia per la vergogna di “essere stato contagiato” e conseguente disistima di sè … senza che ciò possa essere considerata una possibile duplicazione di danno.
Analogamente, un soggetto che ha subito uno sfregio al volto a seguito di una lesione volontariamente inferta da terzi ed un altro che è portatore di analogo reliquato cicatriziale in conseguenza di un sinistro stradale possono manifestare condizioni di “ sofferenza” ben differenti , ove nel primo caso assumono di certo autonoma valenza risarcitoria anche le modalita’ circostanziali del fatto illecito , che chiaramente esulano dalle competenze valutative del medico legale … ma anche dalla posta risarcitoria prevista dalla TUN per il solo danno biologico.
La TUN , quindi, impone una attenta riflessione da parte dello Specialista Medico Legale , diventando ora necessaria una sostanziale revisione del concetto di “danno biologico” che richiede una doppia parametrazione tecnica.
Non possiamo, dunque restare “alla finestra” … col rischio che la valutazione del danno alla persona diventi solo una semplice stima tecnica di “disfunzionalità” anatomica o psichica che potrebbe anche non richiedere alcuna specifica competenza specialistica e quindi eseguibile da altre categorie sanitarie ( medici del lavoro, igienisti, medici di famiglia …).
La verità è un’altra: la valutazione del danno alla persona necessita di una specifica base culturale ed una forma mentis che deve adeguare un parametro “ scientifico” alla persona in tutti i suoi aspetti “ biologici” graduandone gli effetti ai fini liquidativi, proprio per consentite( in un sistema tabellare) una adeguata perequazione risarcitoria che non può essere garantita solo dal parametro quantitativo della Invalidata permanente.
I principi – studiati da anni nel nostro contesto libero professionale e già acquisiti in SIMLA( vedi Paper Position SIMLA 2021 ) – hanno già trovato una prima metodologia e spazio applicativo ( vedi Principi e Guida alla Valutazione del danno da sofferenza Correlata – Casistica applicata- Minerva Medica 2024) e possono ora rappresentare un parametro “qualitativo” oggettivo (in quanto graduato rispetto a quella determinata realtà clinico menomativa accertata in sede medico legale) utilizzabile nel contesto della attuale TUN per un opportuno riequilibrio risarcitorio della componente biologica del danno non patrimoniale.
Evidentemente tutto sta nell’iniziare a definire nelle Consulenze anche tale parametro: utile anche per meglio inquadrare – in molti casi di responsabilità sanitaria – il reale presupposto risarcitorio del “danno incrementativo” ove si consideri che il cosiddetto maggior danno deve includere non solo una maggiorazione quantitativa della disfunzionalità anatomica e/o psichica, ma essere tale da aver determinato – altresì – una modifica peggiorativa delle preesistenti condizioni esistenziali del danneggiato, rispetto al miglioramento funzionale (e della qualità di vita) che il trattamento sanitario adeguatamente eseguito avrebbe dovuto determinare.
Dr Enrico Pedoja
Innovazione medicolegale