La danneggiata era ancora in vita al momento della decisione di appello, per cui “l’invalidità permanente riconosciuta è stata parametrata non sull’aspettativa di vita, come indicata dal Consulente, ma all’aspettativa di vita massima”.
Quindi è stato svolto un nuovo conteggio perché la sentenza di primo grado l’aveva liquidato assumendo come parametro l’aspettativa di vita fino a 30 anni di età, erroneamente non valutando che tale minore aspettativa era stata “direttamente imputata alla condotta negligente dei sanitari”.
Con la sentenza 27 settembre 2021, n. 26118, è stato osservato che tra i postumi permanenti causati da una lesione alla salute “rientra anche il maggiore rischio di una ingravescenza futura” ed ha inquadrato tale forma di lesione nella figura del c.d. danno latente. Tale danno consiste nella possibilità, oggettiva e non ipotetica, che l’infermità residuata all’infortunio possa improvvisamente degenerare in un futuro tanto prossimo quanto remoto, e differisce dal mero peggioramento dipendente dalla naturale evoluzione dell’infermità. Richiamando ulteriori precedenti in argomento, la decisione ha osservato che “il patire postumi che, per quanto stabilizzati, espongano per la loro gravità la vittima ad un maggior rischio di ingravescenza o morte ante tempus costituisce per la vittima una lesione della salute”.
Detto in altri termini, ogni malattia con postumi permanenti può naturalmente evolversi nel senso di un aggravamento. Ma se la malattia è talmente grave da diventare essa stessa la causa di una prognosi di vita drammaticamente abbreviata il danno latente è in sé una forma di danno alla salute.
La risposta della Corte Suprema dà continuità a quanto già affermato con la sentenza n. 26118 del 2021. Ovverosia: se il rischio “di contrarre malattie in futuro o di morire ante tempus, a causa dell’avverarsi del rischio latente, costituisce un danno alla salute, di esso si deve tenere conto nella determinazione del grado percentuale di invalidità permanente, secondo le indicazioni della medicina legale”.
Questo significa che il CTU, chiamato a valutare la percentuale di invalidità permanente sulla quale calcolare il danno biologico, dovrà incrementare quel valore proprio per tener conto del rischio latente; facendo così, la liquidazione potrà avvenire tenendo conto della minore speranza di vita in concreto, e non di quella media.
Ma se, al contrario, il CTU non avesse considerato il rischio latente nel calcolare la percentuale di invalidità permanente, allora di quel pregiudizio “dovrà tener conto il Giudice, maggiorando la liquidazione in via equitativa.
Dr. Enrico Pedoja
Ma siamo sicuri che la Medicina Legale abbia dato indicazioni tecniche in tal senso.. ?